sabato 24 marzo 2012

Da Riva del Garda alla Birmania, a fianco dei Karen

Il pediatra Carlo Polloni, la dottoressa Laura Rigotti, l'infermiera Monica Bravin, e poi 
Michele Ghirotti, Cinzia Fanigliulo e il nostro Claudio Chiarani in «missione» per Claudio

Sei rivani in Birmaina,
clandestini per Semeraro


«Ammiro quello che fai Claudio, prima o dopo mi piacerebbe venire con te».
Era il dieci settembre 2011, e con l'amico Claudio Semeraro guardavamo le schiume nella cascata del Varone. Il titolare con il giornalista che faceva il suo mestiere. Tredici giorni dopo l'incidente che gli tolse la vita mentre con l'amico Franco Bresciani stava andando in bicicletta a Malcesine. Questo è per te Claudio, questo racconto della «nostra» missione in Myanmar tra la gente Karen ti possa arrivare ovunque tu sia. Te lo meriti, te lo devo. Tutti te lo dobbiamo. Grazie.
Due medici rivani, il pediatra Carlo Polloni e la dottoressa Laura Rigotti, l'infermiera Monica Bravin, Michele Ghirotti, figlio del compianto grafico Lorenzo, la moglie di Claudio Semeraro Cinzia Fanigliulo e il sottoscritto sono partiti da Venezia lunedì 20 febbraio scorso alla volta di Bangkok, in Thailandia, per proseguire poi verso nord fino alla città di Mae Sot e quindi, clandestinamente, entrare nel Myanmar.
La missione della onlus Mithra fondata da Cinzia e Claudio prevede di andare a nord, sulle montagne dove l'esercito di liberazione Karen difende da sessant'anni la propria gente dagli attacchi dell'esercito birmano. Scopo visitare e vaccinare i bambini, curare eventuali malati, dare loro assistenza sanitaria, cibo, medicine, vestiti, scarpe, denaro e... affetto. Dall'aeroporto Marco Polo di Venezia via Dubai fino a Bangkok sono undici ore di volo, la sosta negli Emirati per cambiare aereo e salire da un Airbus 320 sul modernissimo Airbus 380 (ottocento posti) con il quale arriviamo nella capitale thailandese l'indomani, martedì 21 alle sei di mattina ora locale, mezzanotte esatta in Italia.
Cinzia dirige, lei qui ci è stata con Claudio altre volte e ormai è di casa. Tiene i contatti, conosce le persone, prenota la macchina con la quale da Bangkok percorreremo cinquecento chilometri alla volta di Mae Sot, importante snodo vicino al confine con il Myanmar. Partenza alle otto e venti, arrivo alle otto di sera, le due di pomeriggio in Italia. L'albergo che ci accoglie, il DK è semplice ma va benissimo. La mia stanza dà sulla sottostante trafficatissima strada, ma dopo la doccia e la cena il riposo è garantito. L'indomani abbiamo l'incontro con il colonnello dell'esercito Karen Nerdah, un signore che ha lasciato gli studi negli Stati Uniti per fare gli interessi della sua gente, e Bawa, altro signore che scoprirò essere un infermiere dalle mille capacità. Nerdah è impegnato nei colloqui con i birmani per tentare l'ennesimo cessate il fuoco, sarà Bawa ad accompagnarci coi militari in Myanmar e riportarci fuori dopo cinque giorni nuovamente in Thailandia.
Mercoledì 23 si va a far spesa: pesce essiccato, peperoncino (ne usano quantità industriali per insaporire ogni cosa), salsa di pomodoro, riso, cipolle, sigarette, aglio, caffè solubile, un po' di pasta e poi materassini, amache e zanzariere che acquistiamo per dormire nella giungla. Materiale quest'ultimo che lasceremo in dotazione ai militari, ci mancherebbe. La giornata trascorre veloce, la prima riflessione è che ci sono persone che fanno di tutto per apparire, altre per non apparire, altre per essere ma non sono, altre invece che in assoluto silenzio fanno. Cinzia, Carlo, Monica, Laura e Michele sono alcune di loro mentre io assisto a tutto questo. E' la mia prima volta in oriente, sapevo ma finché non vedi con i tuoi occhi non sai nulla. Giovedì 23 febbraio partiamo alla volta del Myanmar, la strada è «orrenda» è definirla così è un puro eufemismo. Dopo aver acquistato una ventina di galline vive si parte: i primi cento chilometri sono relativamente belli, i seguenti settanta sono un susseguirsi di salite e discese continue tra tornanti a 180 gradi dove lo stomaco si ribella più volte. Passiamo vicino al più grande campo profughi dove l'indomani, ci sarà comunicato, scoppierà un incendio che brucerà circa cinquecento baracche e causerà tre morti. Il tutto per un ubriaco che si addormenterà con una sigaretta accesa. Anche questa è una tragedia della miseria che i Karen devono sopportare. Loro non vogliono che si coltivi l'oppio, i birmani invece ne traggono grandi quantità di denaro e allora l'equazione che ne deriva è molto semplice: i Karen vanno eliminati, ma da oltre mezzo secolo, nonostante gli orfani, chi salta sulle mine di cui è cosparso l'intero territorio, chi resta mutilato, chi vive in condizioni di assoluta povertà senza nessuna assistenza si oppone a questo commercio. Il mondo, il «nostro» mondo sa tutto questo?
Pochi chilometri prima di Umpien Mai con le jeep ci buttiamo su di uno sterrato, salti e buche sono la nostra compagnia per circa dieci chilometri fino allo steccato di sbarramento del villaggio di Oo Kray Kee dove siamo accolti dai militari Karen. Una capanna è riservata a noi, e mentre quattro galline sono già in pentola ci sistemiamo per la notte. Poco dopo ci sarà il tempo per suturare un signore che si è trafitto la guancia da parte a parte con un pezzo di bambù, il suo soffrire in silenzio e la dignità con cui sopporta ago e filo non hanno bisogno di parole. Tre giorni dopo lo troveremo in un altro villaggio saltare arzillo pienamente rinvigorito. Non smetterà mai di ringraziare chi l'ha curato.
L'indomani i medici iniziano a visitare i bambini, vaccinare i nuovi e dare antibiotici e vitamine a chi ne ha bisogno. I medici rivani assistiti dai «medics» locali, una sorta d'infermieri con i quali si scambiano poche parole in inglese, lavorano tutto il pomeriggio. Cinzia esegue piccole otturazioni a chi ne ha bisogno, Bawa l'assiste e se c'è da togliere qualche dente cariato è pronto. Ad una bambina di quattro anni, stesa sul pavimento fatto di foglie di palme intrecciate si toglie un incisivo da latte. Non dirà neanche un «ahi» mentre penso che se fosse uno dei nostri le urla si sentirebbero a chilometri.
Dignità estrema, e tutti noi impariamo ogni secondo che passa qualcosa in più. Il giorno dopo ci rechiamo a piedi scortati dai militari in un altro villaggio, Kaw La Mee uno fondato grazie agli aiuti dell'associazione Uomo Libero che raggiungiamo dopo due ore di marcia e circa dieci chilometri distante dalla nostra base di OO Kray Ke. Visti i pochi bambini si decide di proseguire verso Kaw La Mee due fondato dalla Mithra. Altri bambini, altra miseria, altre storie. Il tutto sempre sotto scorta, rigorosamente sul sentiero segnato altrimenti potresti saltare su una mina.
Penso ai film sul Vietnam, alla giungla, a quella logorante guerra, alle sofferenze della gente comune per gli egoismi dei potenti e maledico tutto.
Penso all'orrore del colonello Kurtz in Apocalipse Now e quanto Coppola, il regista, abbia azzeccato il tema. Penso alla frase del profeta Isaia scritta alle Nazioni Unite: «Trasformeranno le loro spade in aratri» e mi chiedo quando gli Ak 47 dei Karen lasceranno il posto a strumenti per coltivare la terra.
La notte arriva presto, la mattina usciamo dai sacchi a pelo per indossare i vestiti bagnati, l'umidità è altissima di notte, ma di giorni si arriva anche a 40 gradi. E' lunedì, abbiamo finito e si torna. Lasciamo quella gente col cuore in mano, ci sarebbe tantissimo ancora da raccontare. Ci sarà tantissimo ancora da fare, perché laggiù noi torneremo.

Claudio Chiarani per l'Adige 24/03/2012

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